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Seminario Teosofico di Ascona – Marzo 2025

“Come dentro così fuori: cambiare se stessi, cambiare il mondo”

ONLY CONNECT

Claudia Cazzaniga

Il tema di questo seminario ci mette in gioco direttamente poiché ci induce a interrogarci sul modo in cui vivere nel mondo e nel tempo che ci è dato. Vorrei quindi presentare una serie di spunti di riflessione e di simboli, svolgendo un excursus tra diverse tradizioni spirituali, per giungere a un esempio tratto dalla letteratura moderna a cui fa riferimento la citazione letteraria che dà il titolo al presente intervento, “Only connect”.

Naturalmente, il dentro e il fuori esistono solo dal nostro punto di vista parziale; è da qui, però, che occorre partire ed è questa la sfida che dobbiamo cogliere, in quanto esseri umani che vivono nel tempo e nello spazio. Un primo simbolo significativo che si presenta sotto questo punto di vista, è collegato alla necessità di dover partire dalle condizioni date, ossia di coltivare il nostro campo. Il “campo” è chiamato nella tradizione indù kshetra ed è ciò di cui Krishna parla ad Arjuna nel cap. XIII della Bhagavad Gita. Dobbiamo quindi letteralmente dedicarci alla “coltivazione” di sé, ossia, propriamente, all’Autocultura.

A questo proposito, si può opportunamente fare riferimento a una citazione tratta dal libro di Taimni, il cui titolo è precisamente Autocultura e che rappresenta un testo fondamentale della letteratura teosofica.

“È necessario ricordare al lettore l’inversione che avviene allorché la coscienza discende dal livello dell’Individualità a quello della personalità. In ragione di questa inversione, i tre piani inferiori in cui opera la personalità stanno in relazione ai tre piani superiori in cui opera l’Individualità come l’immagine riflessa di un edificio nell’acqua sta all’edificio stesso. Nella riflessione, la parte più alta dell’edificio si riflette nella parte più bassa dell’immagine, mentre la sua parte più bassa incontra la parte più alta dell’immagine invertita. A seguito di questa inversione, la coscienza Ātmica viene, per così dire, riflessa nel piano fisico, quella Buddhica nell’astrale e quella Mentale Superiore nel mentale inferiore. […] Questa riflessione significa non solo una sorta di somiglianza tra le caratteristiche presenti nei piani corrispondenti, ma anche un collegamento e un rapporto più diretto tra di essi. Così la vita e la coscienza del piano Ātmico trovano in certo modo un’espressione misteriosamente più piena attraverso il piano fisico anziché negli altri due piani di funzionamento della personalità, nonostante il fatto che il fisico sia il livello più distante dall’Atmico. Similmente, la coscienza Buddhica ha una misteriosa relazione con l’astrale e, naturalmente, la relazione tra il Mentale Superiore e il mentale inferiore è facilmente visibile e ben conosciuta. […] Per quanto riguarda la relazione tra il Piano Ātmico e quello fisico, possiamo sottolineare il fatto che la vita della personalità in ogni incarnazione è piena e dinamica solo sul piano fisico e quindi il periodo trascorso su tale piano risulta essere il più importante. Sul piano fisico l’uomo è completo, può dare origine alle cause e crescere in capacità, mentre nella vita dopo la morte, sui piani astrale e mentale, egli raccoglie e consolida semplicemente i risultati di ciò che ha compiuto nella precedente esistenza sul piano fisico. È precisamente in ragione del fatto che l’uomo, in quanto personalità, è completo solo sul piano fisico, che egli può realizzare la propria Liberazione solo durante l’esistenza fisica e non nella vita dopo la morte, sui piani astrale e mentale. La vita vissuta sul piano fisico è quindi la più significativa in un’incarnazione e ciò è senza dubbio dovuto al fatto che essa riflette e incarna in modo particolare la vita dell’Ātmā, l’aspetto più elevato dell’Individualità. Si può quindi affermare, in senso generale, che la via verso la Mente Superiore passi attraverso la mente inferiore, quella verso Buddhi attraverso le emozioni e quella verso l’Ātmā attraverso l’azione. Per azione non intendiamo qui la semplice attività del corpo fisico, ma tutte le azioni che originano al nostro interno e sono volte a trasmutare i nostri ideali in una vita dinamica, rendendo la personalità mera espressione e strumento dell’Io Superiore. Sebbene l’Io Superiore abbia sede nel cuore di ogni essere umano, la sua volontà non è in grado di trovare espressione nella personalità, in parte a causa dell’inadeguatezza e della resistenza dei veicoli inferiori e in parte a causa dell’egoismo e delle illusioni in cui è immersa la personalità. È solo allorché la personalità inizia effettivamente a cambiare la propria vita e i propri atteggiamenti, traducendo gli ideali spirituali in vita spirituale attraverso l’Autocultura, che l’Io Superiore comincia a trovare un’espressione più piena attraverso la personalità fino a divenire il centro della sua vita e della sua coscienza”.

La lunghezza della citazione è giustificata dalla pregnanza dei diversi simboli illuminanti e di natura universale che essa suggerisce e che si riscontrano nelle tradizioni spirituali di tutto il mondo. 

La montagna e la sua riflessione nelle acque ci ricordano la natura frattale della realtà (che occupa un ruolo importante nelle teorie della fisica contemporanea, le quali descrivono come ciascuna particella di materia nello spazio contenga conoscenze o informazioni sull’intero sistema), ma che è stata conosciuta anche dalle antiche tradizioni, che ci parlano di una manifestazione della realtà che si dispiega su scale diverse che si interpenetrano tra loro, riflettendosi l’una nell’altra. Ciò mostra come, per tornare al tema del seminario, cambiando ciò che è in noi possiamo cambiare anche tutto ciò che ci circonda, a cui siamo inesorabilmente collegati.

Un altro simbolo che trasmette il medesimo messaggio è quello della “rete di Indra”, appartenente alla tradizione buddhista e riportato nella Sutra del diamante. Secondo tale insegnamento, “nel regno del dio Indra vi è una vasta rete che si estende infinitamente in tutte le direzioni. In ogni punto di intersezione della rete vi è una perla perfettamente brillante e riflettente. In ogni perla sono riflesse tutte le altre, in numero infinito e guardando una singola immagine si ritrovano le immagini di tutte le altre perle. Ciò che accade in una perla si riflette in tutte le altre”. Con estrema chiarezza questo racconto ci mette di fronte a un’ulteriore immagine della realtà come interpenetrazione di tutti i fenomeni ricordando come ciò che avviene in noi si riflette in tutti gli altri esseri.

La riflessione frattale e la nostra presenza negli altri è ulteriormente rappresentata dal simbolo dell’“Ishon” della tradizione ebraica (“Insan” nella tradizione sufica), termine che designa la pupilla dell’occhio ma che letteralmente significa “piccolo uomo”. Ciò fa riferimento al fatto che osservando l’occhio dei nostri simili possiamo vedervi un’immagine rimpicciolita della nostra stessa persona. Alla tradizione latina non è estraneo lo stesso concetto, dal momento che il termine pupilla non è che il diminutivo di “pupa”, ossia “bambola”, ancora una volta un riferimento all’immagine ridotta che si riflette nell’iride di coloro che ci stanno dinnanzi.

Anche le Upanishad ci offrono uno spunto per meditare sulla presenza del più piccolo e del più grande nello stesso luogo, ossia nell’interno del cuore umano. Leggiamo, infatti, nella Chandogya Upanishad al versetto 3,14,3: “Il mio Sé, nel mio cuore, è più piccolo di un seme di riso, più piccolo di un seme d’orzo, più piccolo di un seme di senape, più piccolo di un seme di miglio, più piccolo anche del nucleo di un seme di miglio. Il Sé nel mio cuore è più grande della terra, più grande della regione intermedia, più grande del cielo e persino più grande di tutti questi mondi”.

Giunti a questo punto e ripensando al tema in oggetto potremmo chiederci: cosa dobbiamo cambiare nella nostra vita? Ciò che molte tradizioni spirituali e filosofiche considerano essenziale per un’esistenza piena e autentica è la capacità di trovare un equilibrio nelle nostre facoltà. Per fare ciò è necessario conoscersi, che in termini spirituali significa perdersi per ritrovarsi – non acquisire, ma “disimparare”. Il viaggio dell’“eroe” comporta molte prove, che permettono infine di giungere all’integrazione di sé e a una nuova visione e consapevolezza. L’azione è in realtà una spoliazione dalle inutili sovrastrutture, un’intrapresa soprattutto interiore e, un passaggio dalla mente confusa al cuore purificato. Per tutte le tradizioni, infatti, è nel cuore che tale integrazione avviene, non nella mente.

Il passaggio dalla mente al cuore ha stimolato innumerevoli riflessioni nella storia dell’uomo. Un collegamento con il simbolismo di cui abbiamo parlato in precedenza è l’identificazione del cuore con la caverna, che rappresenta un altro riflesso invertito della montagna. Nel cuore ci si raccoglie per cercare di interrompere il frastuono della mente e trovare un momento fuori dal tempo, ove udire la voce del silenzioNon a caso, H.P. Blavatsky, nell’opera che porta precisamente questo titolo, ci avverte: “La Mente è la grande Distruttrice del Reale. Distrugga il Discepolo la Distruttrice” e ci incita ad allontanarci dall’errore della separatività per entrare in una dimensione unificata, “nella camera del cuore”.

Questo passaggio dal “pensare” della mente all’“essere” del cuore veniva simboleggiato dai Greci attraverso l’idea di due diversi tipi di tempo in cui possiamo vivere:  Kronos, il tempo della mente, lineare, quantitativo, fatto di ore e giorni che si susseguono meccanicamente e Kairos, il tempo del cuore, il tempo dell’esperienza profonda, della rivelazione, dell’intuizione, delle opportunità – quello che sperimentiamo quando ci pare che “il tempo si sia fermato”, ossia quando riusciamo a percepire la presenza di ogni possibilità nell’eterno presente.

L’incontro con la nostra natura profonda può essere però inquietante; è comodo cullarsi nelle strutture che ci danno sicurezza; del tutto diverso è “tuffarsi” invece nell’interiorità, dimenticando il proprio sesso, colore, razza, professione, alla ricerca dell’essenza senza forma, come cerchiamo di fare, per esempio, nella meditazione. È lì, nella grotta del cuore, che il soffio di Kairos può farsi sentire… 

E proprio una grotta si trova al centro di uno dei più emblematici viaggi di trasformazione interiore della letteratura moderna. Mi riferisco al romanzo Passaggio in India, scritto nel 1924 da Edward Morgan Forster, autore influenzato dalle idee teosofiche. Durante l’esplorazione di alcune grotte situate in India la protagonista, Adela Quested, una giovane donna proveniente dall’Inghilterra, vive un’esperienza disorientante e traumatica, che non riesce a comprendere razionalmente. La grotta, simbolo del cuore, diviene così l’evento catalizzatore che mette in discussione le sue certezze e la sua percezione della realtà. Nel romanzo, Forster ambienta lo svolgimento di tale percorso nelle grotte di “Marabar”, nome di fantasia, ma che si riferisce a un luogo realmente esistente nel subcontinente indiano: le grotte di Barabar. 

Si tratta di antiche grotte scavate nella roccia e situate nelle Barabar Hills, nello stato indiano di Bihar. Queste sono tra le più antiche grotte scavate nella roccia esistenti in India e risalgono al periodo Mauryan (322-185 avanti Cristo). Le grotte presentano un interno incredibilmente liscio che le rende riflettenti come specchi e che dimostra una straordinaria capacità da parte degli antichi costruttori. Esse sono inoltre dotate di speciali proprietà acustiche. Il suono all’interno crea un’eco e un’amplificazione i cui effetti hanno affascinato i visitatori per oltre due millenni. 

In queste grotte, non a caso utilizzate come luogo di meditazione, ci troviamo quindi di fronte a una riflessione sia sonora che visuale, che ci rimanda ancora una volta al simbolismo del rispecchiamento di tutte le cose e ciò spiega perché esse svolgono nel romanzo di Forster il ruolo di un elemento di crisi e di catarsi. In questo affascinante romanzo, infatti, vengono affrontati, a diversi livelli, i conflitti e le possibilità di connessione, sia per quanto riguarda l’interazione tra la classe inglese dominante e i sudditi indiani nell’era coloniale, che per ciò che concerne l’interiorità dei singoli protagonisti.

Forster suggerisce che solo attraverso lo sviluppo di tali connessioni sia possibile raggiungere una vita completa e autentica. La sua celebre frase “Only connect… live in fragments no longer”, a cui fa riferimento il titolo del presente intervento e utilizzata dall’autore in un altro famoso romanzo, Casa Howard, riassume quindi efficacemente il necessario superamento della concezione dualistica per sperimentare l’unità intrinseca dell’esistenza, di cui parlano le tradizioni di ogni tempo e la cui eco non è impossibile ritrovare, se sappiamo prestare orecchio, anche nella nostra modernità.