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Rivista Teosofica Svizzera/Ticinese (ADYAR)

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Rivista Teosofica Svizzera/Ticinese (ADYAR)

Archivi del giorno: giugno 13, 2012

Il Buddhismo Vajrayāna

13 mercoledì Giu 2012

Posted by ancaroni in Articoli della Rivista Teosofica Ticinese

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Vajra tibetano con campana. Il vajra è un oggetto rituale che nel Buddhismo Vajrayāna rappresenta i “mezzi abili” (upāya); la campana (ghaṇṭa) indica invece la saggezza ultima (prajñā) che corrisponde alla vacuità (śunyātā). Nel Buddhismo tibetano viene consegnato all’iniziato un vajra e una campana. Il vajra a cinque punte (rdo-rje rtse-lnga-pa) rappresenta il principio di trasformazione secondo lo Yogatantra.

Vajra tibetano a nove punte ((rdo-rje rtse-dge-pa). Questo tipo di vajra viene utilizzato per le pratiche delle deità irate.

Il Buddhismo Vajrayāna è, secondo le proprie credenze, uno sviluppo del Buddhismo Mahāyāna. Non si può entrare nel Vajrayāna senza aver prima compreso profondamente le dottrine del Mahāyāna come la dottrina dello śunyātā, della compassione (karuṇā), della bodhicitta e della natura di Buddha compresa in ogni essere senziente. Secondo aspetto fondamentale del Vajrayāna è che esso può essere appreso solo per mezzo di una guida, di un maestro (sanscrito: guru, tibetano: bla-ma o lama, giapp. 師 shi).
Ciò premesso questo “veicolo” buddhista si fonda sul termine tantra che significa “continuità”. Questo termine designa l’autentica natura che soggiace all’intera realtà sia essa relativa al saṃsāra o allo stesso nirvāṇa. Questa natura corrisponde alla vacuità. Quando la vacuità si manifesta, si manifesta attraverso l’illusione dell’esistere (māyājāla tib. sgyu-‘phrul dra-ba). Quando si riconosce la vacuità che soggiace ai fenomeni si diviene illuminati. Il tantra è la via che conduce a questa consapevolezza. Il termine tantra non riguarda quindi solo i testi, ma anche le relative dottrine. Il “veicolo” [3]buddhista che trasmette le dottrine dei tantra viene denominato Vajrayāna.
Il Vajrayāna, a detta dei suoi seguaci, si distingue dal Mahayāna perché a differenza di questo “veicolo” persegue il principio del “Frutto” (sans. phala, tib. ‘bras-bu, giapp. 果 ka) e non delle “Cause” (sans. hetu, tib. rgyu, giapp. 因 in). Secondo il Vajrayāna, infatti, il Buddhismo Mahayāna (indicato anche come Pāramitayāna, Veicolo delle Perfezioni, o Sūtrayāna, Veicolo dei Sūtra) persegue, per mezzo della meditazione e dello studio dei sutra, un cammino di perfezionamento attraverso la rinuncia delle condotte negative accumulando meriti e saggezza per realizzare il Frutto del corpo assoluto (dharmakāya) e quello dei corpi formali (rūpakāya). Per il Mahayāna, quindi, il cammino percorso è la “causa” dell’illuminazione.
Il Vajrayāna, invece, persegue il principio del “Frutto” ovvero per tramite dei “mezzi abili” rappresentati dai tantra questo veicolo conduce alla purificazione del corpo e di ciò che lo circonda (Tantra inferiori o esterni: Kriyā Tantra, Caryā Tantra e Yoga Tantra) e a trasformare la dimensione “impura” in “pura” (Tantra superiori o interni: Anuttarayoga Tantra).
Questo percorso della Via del diamante può essere intrapreso, secondo questa tradizione buddhista, solo attraverso delle iniziazioni (sans. abhiṣeka, tib. dbang bskur ba, giapp. 灌頂 kanjō) conferite da un maestro di vajra (vajrācarya). A seguito di ciò il discepolo riceve degli insegnamenti orali (sans. āgama, tib. lung, giapp. 阿含 agon) ovvero dei testi da studiare e delle istruzioni. Per realizzare la “pura visione” della Realtà, il discepolo del Vajrayāna applica il metodo del sādhana (strumento per la realizzazione) che raccoglie varie tecniche:

  • Iṣṭadevatā (tib. y-dam, giapp. 本尊 honzon): visualizzare la divinità scelta per la meditazione;
  • Maṇḍala (tib. dkyl-‘khor, giapp. 曼荼羅 mandara): visualizzare il sacro ambiente circostante le divinità prescelta per la meditazione;
  • Mudrā (tib. phyag-rgya, giapp. 印相 insō): compiere gesti rituali e simbolici;
  • Pūja (tib. mchod-pa, giapp. 供養 kuyō): fare offerte alle divinità;
  • Mantra: recitare formule sacre;
  • Samudācāratā: svolgere azioni religiose.

Per tramite di questi “mezzi abili” uniti alla consapevolezza della vacuità e della purezza di tutto il Reale, il discepolo consegue il “Frutto” che consiste nel completo stato di buddhità. Tale frutto può essere conseguito in più rinascite (via dei Tantra inferiori) o in una sola vita (via dei Tantra superiori).

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Il buddhismo theravāda

13 mercoledì Giu 2012

Posted by ancaroni in Articoli della Rivista Teosofica Ticinese

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Schema dell’impianto filosofico [modifica]

Statua del Buddha a Bangkok

Il buddhismo theravāda promuove il concetto espresso nella lingua canonica pāli di vibhajjavāda, ossia l'”insegnamento dell’analisi”. Questa dottrina dice che l’introspezione deve essere il frutto delle esperienze, dell’investigazione critica e della ragione applicata del praticante, piuttosto che della fede cieca. Tuttavia le scritture canoniche dei theravādin mettono anche in risalto il prestare attenzione agli insegnamenti dei saggi, in quanto si considerano tali istruzioni, insieme alla valutazione delle proprie esperienze, le due prove alla cui luce deve essere giudicata la propria pratica.

Nel theravāda si identifica la causa dell’esistenza e della sofferenza umana (dukkha) nell’attaccamento (tanha), che causa il sorgere delle impurità mentali (ossia dosa, la rabbia, la malevolenza e l’inimicizia, lobha o rāga, la bramosia, l’avidità e la presunzione, moha, la gelosia, l’ossessione, la distrazione, la depressione e l’ansia ecc.). L’intensità di queste impurità può variare tra grezza, media e sottile. È un fenomeno che sorge di frequente, permane per del tempo e quindi svanisce. I theravādin credono che le impurità non siano dannose soltanto per sé, ma che lo siano anche per gli altri. Sono la forza motrice di tutti i mali che gli esseri umani possono commettere.

I theravādin credono che queste impurità abbiano la natura delle abitudini che sorgono dall’ignoranza (avijja) che affligge le menti di tutti gli esseri non illuminati. Gli esseri non illuminati sono creduti essere sotto l’influsso delle impurità, che vi aderiscano a causa dell’ignoranza della verità. Ma in realtà queste impurità mentali non sono nient’altro che delle macchie che hanno contaminato la mente creando sofferenza e stress. Gli esseri non illuminati sono anche creduti attaccati al corpo considerandolo come il proprio “sé”, mentre in realtà il corpo è un fenomeno impermanente costituito dai quattro elementi di base (spesso identificati con la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria), che dopo la morte è destinato a decomporsi e a disperdersi. La frequente istigazione e manipolazione che le impurità mentali esercitano sulla mente sono ritenute costituire un impedimento a che la mente possa vedere la vera natura della realtà. Una condotta erronea a sua volta può rafforzare le impurità, ma la pratica del Nobile Ottuplice Sentiero può indebolirle o sradicarle.

Si crede inoltre che gli esseri non illuminati sperimentino il mondo attraverso le cosiddette “sei porte” sensoriali imperfette (la vista, l’udito, l’odorato, il gusto, il tatto e la mente) per poi usare la propria mente annebbiata dalle impurità per formarsene la propria interpretazione, percezione e conclusione[73]. In tali condizioni la percezione o la conclusione che se ne sarà tratta sarà basata sulla propria illusione della realtà[74]. Conseguito uno stato di jhāna le cinque porte dei sensi fisici si affievoliranno, le impurità mentali saranno soppresse e si rafforzeranno gli stati sani della mente. La mente potrà quindi essere diretta all’investigazione e conseguire l’introspezione della vera natura della realtà.

Ci sono tre stadî di impurità. Nello stato di passività le impurità giacciono sopite nella base del substrato mentale in forma di tendenze latenti (anusaya), ma per l’impatto degli stimoli sensoriali si manifesterà (pariyuṭṭhāna) in forma di pensieri, emozioni e volizioni malsane. Acquistassero ulteriore forza le impurità potrebbero raggiungere lo stadio pericoloso della trasgressione (vitikkama), che comporterebbe poi l’esplicarsi di azioni fisiche o verbali.

Nel Theravāda si crede che per liberarsi dalla sofferenza e dallo stress si debba sradicare definitivamente queste impurità. All’inizio le impurità sono tenute a bada tramite la presenza mentale perché gli sia impedito di prendere il sopravvento sulla mente e sulle azioni del corpo. Sono quindi sradicate grazie all’investigazione interiore, cioè l’analisi, l’esperienza e la comprensione della vera natura di quelle impurità, condotte in uno stato di jhāna. Questo procedimento deve essere ripetuto per ogni impurità. La pratica condurrà quindi il meditatore alla realizzazione delle Quattro Nobili Verità e dell’illuminazione, ossia del nibbāna. Il nibbāna è l’obiettivo finale dei theravādin. Si dice che il nibbāna sia la beatitudine perfetta e la persona che lo consegue è libera dal ripetersi del ciclo di nascita, malattia, invecchiamento e morte.

I theravādin credono che ciascun individuo sia personalmente responsabile del proprio risveglio e della propria liberazione essendo ciascuno il responsabile delle proprie azioni e delle loro conseguenze (kamma, pāli; karma, sanscrito). Limitarsi a imparare o a credere nell’autentica natura della realtà come è stata descritta dal Buddha non basta, il risveglio può essere conseguito solo da quanti arrivano a conoscerlo per esperienza diretta realizzandone l’essenza grazie ai propri sforzi. Dovranno seguire e praticare il Nobile Ottuplice Sentiero com’è stato insegnato dal Buddha per giungere da soli a scoprire la realtà delle cose. Secondo la dottrina theravāda i Buddha, gli dei e le divinità non sono in grado di conferire il risveglio a un essere umano né di sottrarlo al ciclo ripetitivo della nascita, malattia, invecchiamento e morte (il samsāra). Per i theravādin il Buddha è l’insuperabile e perfetto insegnante del Nobile Ottuplice Sentiero, mentre gli dei e le divinità sono ancora soggette alla rabbia, alla gelosia, all’odio, alla vendetta, alla bramosia, all’avidità, all’inganno e alla morte.

Si crede che alcune persone che praticano con assiduità e zelo possano conseguire il nibbāna in una sola vita, come fecero molti dei primi discepoli del Buddha. Per altri il processo può durare ancora numerose vite durante le quali si conseguono realizzazioni spirituali via via più elevate. Una persona che ha raggiunto il nibbāna è detta un arahant Si crede che il nibbāna sia conseguibile più rapidamente come discepoli del Buddha, essendo egli creduto essere entrato in possesso dell’ultima verità su come si deve guidare una persona nel processo verso il risveglio.

Nel Theravāda il nibbāna conseguito dagli arahant è ritenuto identico a quello conseguito dallo stesso Buddha[75], essendoci un solo tipo di nibbāna. Il Buddha era superiore agli arahant perché aveva scoperto il sentiero con le sole proprie forze insegnandolo poi agli altri (ossia girando metaforicamente la ruota del Dhamma). Gli arahant invece hanno conseguito il nibbāna in parte grazie all’insegnamento del Buddha. I theravādin riveriscono il Buddha quale persona dotata di suprema virtù, ma riconoscono l’esistenza di altri Buddha nel lontano passato o futuro. Maitreya (sanscr; Metteya, pāli), per esempio, è citato molto brevemente nel canone pāli come il Buddha che verrà in un lontano futuro.

Tradizionalmente i theravādin possono o coltivare la fiducia (o fede) nell’insegnamento del Buddha e praticare i precetti minori nella speranza di conseguire i benefici minori (come una rinascita più felice, aumentare la propria forza e bellezza e garantirsi una vita lunga), oppure possono investigare e verificare per esperienza diretta la verità dell’insegnamento del Buddha praticando per il proprio risveglio le tre sezioni fondamentali del Nobile Ottuplice Sentiero: paññā (saggezza), sīla (etica), samādhi (concentrazione, raccoglimento, meditazione).

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