Porfirio

Conferenza tenuta alla Società Teosofica Svizzera a Ginevra, il 6 dicembre 1994.

Porfirio, o: Le origini della teosofia greca

Il neoplatonico Porfirio nacque a Tiro nel 232 o 233, da una ricca famiglia fenicia. Il suo nome era Malchos, che significa ‘re’ (cfr. l’arabo El-Malek) ed era stato adattato in Porphyrios, che in greco significa ‘vestito di porpora’, come i re. È quindi sotto questo nome che la Grecia e Roma lo hanno conosciuto. Seguì prima l’insegnamento di Ammonio Sacca ad Alessandria con Plotino, e poi andò ad Atene, dove studiò con il famoso retore Longino, che era considerato un enciclopedista vivente. Da questa prima parte della sua vita conosciamo i titoli di tre delle sue opere: la Filosofia degli Oracoli, una Vita di Pitagora e un trattato sulle Immagini degli Dei. Possediamo ancora il secondo, concepito alla maniera di un’agiografia pagana, mentre il primo e il terzo sono stati persi, o piuttosto quasi interamente distrutti dai cristiani.

Nel 263, Porfirio fu inviato a Roma da Eubulo, capo della scuola neoplatonica di Atene, per cercare di convincere Plotino a tornare a un’interpretazione più letterale delle opere di Platone. Ma, avendo Plotino convinto della correttezza delle sue parole, Porfirio divenne suo allievo e poi suo amico. Intorno al 268, soffrendo di una profonda depressione, pensò di suicidarsi e il suo maestro Plotino lo dissuase, consigliandogli di viaggiare per fargli cambiare idea[1]. Porfirio si recò quindi a Lilibea, in Sicilia, dove rimase fino alla morte di Plotino nel 270. Due opere molto diverse risalgono a questo periodo e avranno un destino opposto. Il primo è una breve introduzione (Isagogè ) alle Categorie di Aristotele, il secondo una lunga critica (quindici libri) del cristianesimo.

L’Isagogè fu scritto per spiegare al senatore Crisoario (al quale Porfirio dava lezioni di filosofia) le Categorie di Aristotele, che aveva capito poco o niente. Si tratta quindi di un’opera breve senza pretese di originalità, che fornisce chiarimenti piuttosto tecnici su ciò che si intende per “genere, specie, differenza, proprio e accidente”, i cinque termini delle categorie aristoteliche. Questo piccolo riassunto esplicativo era straordinariamente popolare. Tradotto dal greco in latino da Marius Victorinus e commentato da Boezio, divenne uno strumento essenziale per lo studio della filosofia aristotelica per tutto il Medioevo e nel Rinascimento.

Ben diverso fu il destino del suo lungo trattato Contro i cristiani, scritto intorno all’anno 270.

Nel 323, appena dieci anni dopo l’Editto di Milano del 312 (che autorizzava la pratica del cristianesimo allo stesso modo delle altre religioni dell’Impero), un editto dell’imperatore Costantino richiedeva la distruzione di questa “opera empia”. Questo fu il primo esempio di cristiani che distrussero un’opera considerata eretica. Avevano rapidamente dimenticato le persecuzioni che avevano subito e divennero a loro volta implacabili persecutori sia delle opere che degli uomini.

Ma un certo numero di copie deve essere sfuggito alla distruzione voluta da Costantino, poiché il 17 febbraio 448 gli imperatori Valentiniano III e Teodosio II chiesero nuovamente che il trattato di Porfirio fosse distrutto dal fuoco. Per molto tempo, quindi, sono rimasti solo estratti dubbi, conosciuti attraverso citazioni di autori cristiani che volevano confutarli. Solo dalla trascrizione di Blondel (nel 1867) di un manoscritto di Macario di Magnesia, appartenuto a un ex curatore della Biblioteca Nazionale di Atene e ora scomparso, abbiamo un certo numero di estratti di quest’opera di Porfirio -97 per la cronaca- pubblicati per la prima volta da Paul Foucart nel 1876. Adolf von Harnack li riunì nel 1916 per formare un insieme coerente[2]. Da allora, altre edizioni più recenti[3] hanno permesso di comprendere meglio gli argomenti filosofici di Porfirio contro i dogmi e le pratiche del cristianesimo, ma tutte utilizzano la classificazione stabilita da Harnack:

l) la critica agli evangelisti e agli apostoli;

2) la critica dell’Antico Testamento;

3) critica degli atti e delle parole di Gesù

4) la critica dei dogmi del cristianesimo;

5) la critica alla Chiesa cristiana contemporanea.

Le critiche di Porfirio possono essere riassunte come segue, usando la classificazione di Harnack di cui sopra:

1) I Vangeli si contraddicono a vicenda, attribuendo a un profeta ciò che è stato detto da un altro, e anche le due genealogie di Gesù date, da Matteo e da Luca, non sono in accordo;

2) L’evidenza della critica storica mostra che i testi attribuiti a Mosè non possono essere stati scritti da lui, ma devono essere stati scritti da Esdra, 1180 anni dopo la morte di Mosè. Allo stesso modo, il Libro di Daniele non può essere stato scritto da Daniele, ma fu scritto molto più tardi, sotto Antioco Epifane, che morì nel 164 a.C;

3) Le parole e le azioni di Gesù, come registrate nei Vangeli, mostrano ripetutamente delle contraddizioni, che Porfirio attribuisce al fatto che gli evangelisti non erano testimoni oculari di ciò che riportano, e quindi i loro resoconti sono inaffidabili;

4) In accordo con le concezioni filosofiche della scuola neoplatonica e dell’antichità greco-romana in generale, Porfirio considera inaccettabile l’incarnazione di Dio e la resurrezione dei corpi, considera immorale la pratica del battesimo come espiazione dei peccati e paragona la comunione a un atto di cannibalismo, e infine considera assurda la concezione di un universo che non sia eterno. Tutti questi concetti si basano su una “fede irrazionale che non è soggetta ad esame”;

5) La critica alla Chiesa cristiana del suo tempo ci mostra un ambiente in cui persino la gerarchia ecclesiastica non segue l’insegnamento che fornisce e in cui le donne sono onnipresenti e decidono tutto con le loro balle, persino le ordinazioni sacerdotali.

Da questo argomento è chiaro che Porfirio conosceva bene sia l’Antico che il Nuovo Testamento e deve averli studiati a fondo. Questo fatto ha permesso ad alcuni autori di supporre che avesse avuto un’educazione cristiana, cosa che ha poi negato. Non c’è, tuttavia, alcuna prova di questa presunta apostasia di Porfirio, che dovrebbe essere considerata piuttosto come un tentativo da parte dei cristiani di screditarlo agli occhi dei lettori, mettendo così in dubbio il valore oggettivo della sua critica. Non bisogna dimenticare che tra i discepoli che, con Porfirio, avevano seguito le lezioni del neoplatonico Ammonio Sacca ad Alessandria, c’era anche il cristiano Origene, e con lui certamente molti altri suoi correligionari. Porfirio deve quindi aver avuto la possibilità di conoscere bene l’ambiente cristiano e la sua dottrina, senza averne fatto parte. La sua opinione su di esso può essere riassunta in poche parole: “oscurità, incoerenza, illogicità, falsità, abuso di fiducia e stoltezza.”[4]

Non è sorprendente che una critica così radicale dei fondamenti del cristianesimo sia stata vigorosamente contrastata dai suoi sostenitori con ogni mezzo. Firmicus Maternus, che prima della sua conversione al cristianesimo lo chiamava amichevolmente “il nostro Porfirio”, lo definì in seguito “un nemico di Dio e della verità”.

Il lato costruttivo del pensiero di Porfirio, la sua difesa delle concezioni della civiltà antica, è stato esposto nella sua Filosofia degli Oracoli e nel suo trattato sulle Immagini degli Dei. A queste due opere, che sono state quasi interamente distrutte, bisogna aggiungere la biografia di Plotino (pubblicata come introduzione alle Enneadi), la Vita di Pitagora e il commento simbolico Sull’antro delle Ninfe nell’Odissea, che sono giunti fino a noi. [5] Scrisse anche una storia della filosofia in quattro libri (di cui la Vita di Pitagora era probabilmente una parte), due libri Sui principi, cinque libri Sull’anima, e un discorso sull’astinenza,[6] in cui i termini ‘teosofia’ e ‘teosofo’ sono menzionati per la prima volta in un filosofo greco. Nel Libro II (35,1) chiama ‘teosofi’ coloro che sono istruiti nelle cose divine con una conoscenza che -secondo il contesto- dovrebbe essere anche pratica e non solo teorica. Nello stesso libro, più avanti (45, 2-4), si riferisce a “uomini divini e divinamente saggi” (theiôn kai theosophôn andrôn) che, attraverso la pratica della giovinezza, riguardo alle passioni così come ai cibi che possono suscitarle, si nutrono della “conoscenza delle cose divine” (sitaménon theosophian). La teosofia è dunque qui il cibo spirituale dei saggi. Nel libro IV parla della “saggezza divina” (theosophias) degli Egiziani (9) e dei teosofi dell’India (17) “che i Greci sono soliti chiamare Gimnosofisti”. Plotino – secondo la sua Vita scritta da Porfirio – si era già unito all’esercito dell’imperatore Gordiano III, mosso dal desiderio di entrare in contatto con questi “saggi nudi” la cui esistenza era nota anche a Roma. I teosofi egiziani sono ancora menzionati da Porfirio nella Lettera ad Anebo sulla Teurgia [8] che, insieme alla Lettera a Marcella [9], è giunta fino ai giorni nostri. Anche se rimangono pochissimi passaggi della Filosofia degli Oracoli e delle Immagini degli Dei, sono stati fatti dei tentativi per ricostruirli e possiamo averne un’idea abbastanza precisa, il che è molto interessante per la comprensione delle concezioni religiose dell’antichità pagana.

I cristiani erano critici nei confronti della venerazione delle statue degli dei, poiché non accettavano che si potesse fare un’immagine visibile della divinità. In questo erano ancora molto vicini al giudaismo, da cui provenivano. Porfirio li chiamava quindi analfabeti, incapaci di comprendere il simbolismo figurativo. Nessun credente – ha scritto – prende le statue venerate nei templi come divinità, sono solo immagini con un significato simbolico. Questo ragionamento è stato sviluppato da Massimo di Tiro e il suo argomento può aiutarci a capire quello di Porfirio, che è stato in gran parte distrutto. [10] In primo luogo, gli dèi sono distinti dalle immagini che li rappresentano, e non hanno bisogno che vengano loro erette delle statue, ma è tuttavia buono, pio e opportuno farlo, da un lato per gratitudine e per onorarli, e dall’altro perché – se i filosofi possono contemplarli con la loro anima e la loro mente – la gente comune ha bisogno di immagini per vederli con i suoi occhi carnali. Anche Epicuro (per il quale gli Dei riposavano nella loro beatitudine, estranei e indifferenti al mondo e agli umani) diceva che la loro venerazione è comunque un grande beneficio per i saggi che li onorano.

Per quanto riguarda l’argomento della necessità delle immagini per la comprensione degli analfabeti e della gente comune, è piccante notare che sarà ripreso così com’è dai cristiani per giustificare la decorazione delle loro chiese con statue e affreschi che rappresentano Cristo, la Vergine e i santi. Durante tutto il Medioevo, questa fu la giustificazione per la decorazione pittorica delle chiese, la Biblia pauperum, la Bibbia dei poveri che non potevano né leggere né scrivere e avevano solo questo mezzo visivo per imparare il Vangelo.

Questo dimostra che ciò che non era buono ed era criticato tra i pagani diventa buono e viene lodato quando viene praticato dai cristiani.

Porfirio non è, tuttavia, un critico cieco e unilaterale. Se nella sua Filosofia degli Oracoli [11] difende l’astrologia, la divinazione e la teurgia, e nella sua Vita di Pitagora presenta il filosofo di Samo come un operatore di miracoli come Apollonio di Tiana, In un’opera successiva come la Lettera ad Anebo sulla Teurgia (scritta dopo aver seguito l’insegnamento di Plotino a Roma) ritorna ad una posizione più razionalista e critica le pratiche magiche in cui il neoplatonismo si era impegnato. Pertanto, egli critica anche la propria tradizione filosofica, mostrando le contraddizioni e le impossibilità delle pratiche magiche e teurgiche, così come i miti egizi che venivano invocati per giustificarle. Così facendo, interpreta questi miti in un senso più razionale e filosofico, riportandoli a un’interiorità morale, che è in linea con la prima speculazione platonica.

Come ha scritto Faggin: “Con la Lettera ad Anebo, la lotta contro il cristianesimo, già iniziata con il trattato sulla Filosofia degli Oracoli, diventa una battaglia serrata anche contro la degenerazione del sincretismo greco-orientale, condotta all’insegna di un paganesimo filosofico ridotto alle sue formulazioni più razionali.”[12] Questa posizione critica non è condivisa da tutti.

Questa posizione critica non è condivisa da tutti i neoplatonici, e in particolare da Giamblico, che nella sua opera su I misteri degli Egizi,[13] data come risposta del maestro Abammôn alla lettera di Porfirio ad Anébôn, cerca di conciliare la magia e la divinazione con il neoplatonismo.[14]

Tornato a Roma e succeduto a Plotino come capo della scuola, Porfirio sposò tardivamente Marcella, vedova di un suo amico e madre di sette figli. Questo matrimonio tardivo gli procurò rimproveri da parte di coloro che non riuscivano a capire come un filosofo che aveva predicato l’astinenza potesse contraddirsi nella pratica. In risposta a queste critiche, colse l’occasione di un viaggio lontano da Roma per scrivere alla moglie la Lettera a Marcella, in cui giustifica il suo matrimonio con considerazioni sia pratiche (salvare lei e i suoi figli dallo stato di abbandono in cui si trovava) che teoriche (la salvezza dell’anima è più sicura quando le prove della vita sono più dure).

Questa lettera, che Adolf von Harnack ha chiamato “il testamento morale dell’antichità”,[15] fu molto apprezzata anche dai cristiani e ebbe persino una certa influenza su Sant’Agostino, che lesse la traduzione latina di Marius Victorinus.

All’età di 68 anni, Porfirio ebbe improvvisamente per l’unica volta nella sua vita la visione dell’unità della molteplicità di ciò che esiste e l’unicità trascendentale del divino in esso.

Tra il 300 e il 305 raggruppò e ordinò i 54 trattati di Plotino, sistemandoli in sei libri di nove trattati ciascuno, felice – come scrisse – di aver potuto unire la perfezione del numero sei al numero nove dell’enneade. A questa edizione, in cui gli scritti del suo maestro sono presentati per affinità di argomenti e in ordine crescente di difficoltà senza tener conto della cronologia, ha aggiunto una prefazione, Vita di Plotino.

Porfirio deve essere morto a Roma intorno all’anno 305, ma grazie alle sue opere e a quelle di Plotino, che ha curato, le concezioni filosofiche neoplatoniche dell’antichità hanno potuto attraversare il Medioevo e arrivare fino a noi.

                                               Fabrizio Frigerio

                                               Conferenza tenuta alla Società Teosofica Svizzera

                                               a Ginevra, il 6 dicembre 1994.

[1] Franz Cumont, “Come Plotino distolse Porfirio dal suicidio”, Revue des Etudes grecques, 1921, vol. XXXII, p. 113 ss.

[2] Adolph von Harnack, “Porfirio ‘Gegen die Christen’, 15 Bücher. Zeugnisse, Fragmente und Referate” – Abhandlungen der Akademie von Berlin, 1916.

[3] Tra cui la traduzione italiana: Porfirio, Discorsi contro i cristiani, a cura di Claudio Mutti, Padova, ed. di Ar, 1977, su cui abbiamo basato questi commenti.

[4] Pierre de Labriolle, La Réaction païenne, étude sur la polémique antichrétienne du Ier au VIe siècle, Paris, L’Artisan du Livre, 1948, p.286.

[5] Tra le edizioni disponibili in francese: Porphyre, Vie de Pythagore et Lettre à Marcella, trans. E. Des Places, Parigi, Les Belles Lettres, in italiano: Porfirio, L’antro delle Ninfe, introduzione, traduzione e commento di Laura Simonini, Milano, Adelphi, 1986.

[6] De l’abstinence, tradotto da J. Bouffartigue e M. Patillon, Paris, Les Belles Lettres, 2 vols, 1977-1979.

[7] Vedi Jean-Louis Siémons, Theosophia, Aux Sources néoplatoniciennes et chrétiennes (2e-6e siècles), Paris, Cariscript, 1988, pp.10-13.

[8] Esiste una traduzione italiana recente: Porfirio, Lettera ad Anebo sulla Teurgia, a cura di Giuseppe Faggin, Genova, Il Basilisco, 1982.

[9] Oltre all’edizione francese di Des Places (vedi nota 5), esiste anche un’edizione italiana più recente: Porfirio, Lettera a Marcella, a cura di Giuseppe Faggin, Genova, Il Basilisco, 1982. Le opere di Porfirio sono state riviste e classificate in tre gruppi principali da J. Bidez, Vie de Porphyre le philosophe néoplatonicien, Gand-Leipzig, 1913, pp. 65-73.

[10] L’argomento di Massimo di Tiro è riportato da Louis Rougier, Le conflit du christianisme primitif et de la civilisation antique, Paris, Copernicus, 1977, pp. 93-94.

[11] I pochi frammenti rimasti furono raccolti e classificati da G. Wolff nel 1866, cfr. A. Chaignet, “La philosophie des oracles”, Revue de l’histoire des religions, 1900, p. 337 ss.

[12] Introduzione alla Lettera a Marcella, op. cit. nota 9, p.11 (traduciamo).

[13] Jamblique, Les Mystères des Egyptiens, des Chaldéens et des Assyriens, trans. Pierre Quillard, Parigi, Dervy, 1948.

[14] Questo fece scrivere a J. Bidez che Jamblique era “il misterioso teosofo […] che riformò il misticismo pagano adattandolo alle tradizioni religiose dell’Oriente”. (“Le philosophe Jamblique et son école” – Revue des études grecques, 1919, t. XXXII, pp.29-40).

[15] Hibbert Journal, ottobre 1911.

[16] Vedi Pierre Hadot, Porfirio e Vittorino, Parigi, 1968.

Versione originale francese

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