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Pier Giorgio Parola

PAGANESIMO E TEOSOFIA

Seminario Teosofico di Grado, 16-18 settembre 2016

 

Nel 1877, all’inizio della propria missione e della seconda rivoluzione industriale, Madame Blavatsky scriveva, tra il sarcastico e l’amareggiato: “ci dicono che nel 19° secolo le tenebre della barbarie e del paganesimo sono state dissipate dalla divina luce del cristianesimo e che da due secoli e mezzo la luminosa lampada della scienza moderna ha incominciato a splendere nell’oscurità della secolare ignoranza” (Iside Svelata 1, IX), HPB si rendeva infatti perfettamente conto che in quell’epoca, in un mondo desacralizzato, il problema consisteva nel dovere correggere la “rotta” di un’umanità occidentale troppo legata ad una scienza materialistica e meccanicistica, che tendeva a sfruttare, pur temendola, la natura, ed a delle religioni (abramitiche) ridotte ad un idealismo totalitario. HPB, sempre cercando di avere delle conferme, si è valsa dal simbolismo biblico all’evoluzionismo di Darwin, dallo studio dell’archeologia della fauna e della flora fino alle citazioni dei testi sacri dell’oriente e della cabala, ed ogni sua opera è stata sempre dedicata a dimostrare che, per usare le parole di Shakespeare, “vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia” (Amleto). Judge, da parte sua, rilevava che “sarebbe umiliante per la ‘moderna scienza esatta’, e incompatibile con il cristianesimo, dovere ammettere che i pagani che hanno sempre disprezzato e i ‘testi pagani’ che hanno ridicolizzato o ignorato, hanno nondimeno un patrimonio sapienziale che l’occidente non si mai neppure sognato. Devono capire che la scienza non è nata né è rimasta confinata in occidente e che la superstizione e l’ignoranza non sono relegate in oriente” (The Path, 1891). Ed invero è stato proprio lo straordinario progresso della tecnologia scientifica del successivo XX secolo a scoprire nelle leggi della natura delle eterne verità insite nelle allegorie dell’antica tradizione, quelle stesse realtà universali che costituiscono il fondamento del moderno insegnamento teosofico, e questo lo rilevava già 128 anni fa HPB quando affermava che “Il ‘principio di perfettibilità di Nägeli’, la ‘lotta per uno scopo’ di von de Baer, il ‘soffio divino come impulso interiore nella storia evolutiva della natura’ di Braun, la ‘propensione alla perfettibilità’ del professor Owen, ecc., sono dei modi per esprimere le velate manifestazioni di FOHAT, dotato del pensiero divino e dei dhyāni chohan, la guida universale” (DS 2, nota a pag. 649).

I fondatori della ST conoscevano, e l’hanno palesato, la ricchezza della metafisica e della mitologia dei pagani decenni prima degli studi dei grandi mitologi del nostro secolo, il grande Dumézil fra i primi.

HPB in entrambe le sue opere maggiori, l’Iside Svelata e La Dottrina Segreta, si è continuamente occupata della tradizione, dei vari miti dell’umanità intera, e quindi del paganesimo del mondo classico greco-romano: la correzione di rotta comportava la riscoperta del paganesimo nella vita del mondo di cui siamo parte poiché, celato nelle pagine della DS, adombrato dagli insegnamenti di una secolare tradizione, il paganesimo è vivo. Anche se in Europa i riti pagani non sono più stati praticati, sotto molti aspetti l’anima pagana è sempre stata tradizionalmente presente.

Il paganesimo parla a quegli uomini per i quali gli eventi avvengono in uno spazio sacro, in un cosmo che è un tempio, per i quali il mondo è un quadrato perfetto, giusto, e in un tempo ciclico, quel tempo in cui periodicamente i pagani celebravano degli avvenimenti che ciclicamente si ripetevano secondo un progetto originario, e non nel tempo lineare dei profani e del cristianesimo per cui gli eventi si susseguono in momenti determinati storicamente e in cui la storia prende il posto del mito, in attesa di un eschaton che darà un senso a tutti gli avvenimenti storici.

A partire dall’epoca ellenistica, quando il greco Evemero inaugurò la tendenza a ricercare delle basi storiche a cui far risalire l’origine degli antichi miti, fino ad ora, in un cultura nichilista in cui l’uomo ha preso fin troppo sul serio l’invito biblico a dominare sul creato, in cui si sventra la terra per bruciarne le interiora, gli uomini sembrano avere perso la cognizione del fatto che, come traspare dagli antichi insegnamenti pagani, da ogni mito, su questo nostro pianeta non siamo soli, ma che “milioni di creature spirituali si muovono sulla terra, invisibili, sia quando siamo desti che quando dormiamo…” (John Milton, Paradise Lost). Non si considera più che, come tradizionalmente si è sempre insegnato, non esiste una materia che sia inerte, che non sia viva, e che non esistono delle forze irrimediabilmente inconsapevoli, le forze cieche e senz’anima contemplate dalla scienza occidentale, ma che ogni avvenimento, palese o nascosto, è provocato dall’intervento di esseri viventi: Teilhard de Chardin dice che “per lungo tempo l’evidente limitazione della coscienza alle forme di vita superiori è servita alla scienza come scusa per eliminarla dal suo modello dell’universo” (Le Phénomène Humain, 1955).

Tutte le passate civiltà hanno parlato di un mondo popolato da esseri eterei, in una scala che varia da degli dèi eccelsi a delle entità minori associate con i poteri della natura. Si tratta di un mondo che HPB sente pulsare nelle antiche leggende, negli inni dei popoli più diversi, nei culti folcloristici ed anche nella dimensione esoterica del cristianesimo. Ferve nel mondo la vita di Κυβέλη, la Grande Madre Cibele, una madre, amorosa eppur terribile, adorata, pur con vari nomi, in ogni antica civiltà.

Riguardo a questa manifestazione del sacro, questa ierofania, HPB ci dice che “Il Caos degli antichi, il sacro fuoco zoroastriano, o l’Atash-Behram dei parsi, il fuoco ermetico, il fuoco di Elmes degli antichi germani, il lampo di Cibele, la fiaccola ardente di Apollo, la fiamma sull’altare di Pan, il fuoco inestinguibile  nel tempio sull’Acropoli, e in quello di Vesta, la fiamma sull’elmo di Plutone, le scintille che brillano sui cappelli di Castore e Pollùce e sul capo della Gorgone, sull’elmo di Pallade e le verghe di Mercurio, il Phtha-Ra egizio, il greco Zeus Kataibates (che scende dall’alto) di Pausania, le lingue di fuoco pentecostali e il cespuglio ardente di Mosè, la colonna di fuoco dell’Esodo… erano solo dei diversi nomi per le diverse manifestazioni o effetti della stessa causa misteriosa, onnipervadente, l’Archè dei greci” (DS 1, nota a pag.338). Ma nessuno di loro ha, come la divinità abramitica, creato questo mondo, sono scaturiti per generazioni successive, ciclo dopo ciclo, man mano che l’universo si è organizzato a partire dal caos primigenio.

Gli dèi sono nascosti nelle profondità del mondo, di quell’enorme ologramma che è l’universo, ma sono sempre presenti nello spazio sacro, nel loro tempo perenne. HPB, a proposito delle manifestazioni dell’universo, dice che: “… gli scienziati, se vogliono, possono chiamarle energie o forze generate dalla materia, o ‘modalità del suo moto’, ma l’occultismo vede in questi effetti delle (forze) ‘elementali’ e, nelle cause dirette che li producono, dei DIVINI lavoratori intelligenti. L’intima connessione di questi elementali (guidati dall’infallibile mano dei ‘governanti’), la loro relazione con gli elementi della materia vergine, si rivela nei nostri fenomeni terreni” (DS 1, 146), ed aggiunge inoltre che “l’universo è fatto funzionare e guidato dall’interno verso l’esterno. Come in alto così è in basso, come in cielo così in terra, e che l’uomo, il microcosmo è la copia in miniatura del macrocosmo, è il testimone vivente della legge universale e del modo del suo operare. Vediamo che ogni movimento verso l’esterno, atto, gesto, sia volontario che meccanico, organico o mentale, è prodotto e preceduto da un sentimento o emozione interiore, desiderio o volontà e pensiero o intenzione…. L’intero cosmo è guidato, controllato e animato da una serie quasi infinita di gerarchie di esseri senzienti, ognuna con una missione da compiere e che, sia che li chiamiamo in un modo o in un altro, dyani ciohan o angeli, questi sono dei ‘messaggeri’ solo nel senso che sono gli agenti delle leggi cosmica e karmica, variano infinitamente per i rispettivi gradi di coscienza e intelligenza…..”. Orbene, anche nel concetto pagano di Pantheon, gli dèi e le dee non sono né unici né onniscienti. Secondo la teosofia sono le divinità che provvedono allo sviluppo equilibrato del cosmo grazie alla propria potenza, che è la potenza del Logos, la sua shakti costituita dalle schiere angeliche che in ogni atomo realizzano il progetto del Logos, che sta in Mahat (la Grande Mente in concordanza con il principio antropico): sono i realizzatori del piano posto nell’“Heavenly Man”. “Tutti gli dèi dell’Olimpo, come quelli del pantheon indiano e i rishi, erano la personificazione di sette categorie: noumeni dei poteri intelligenti della natura, forze cosmiche, corpi celesti, dèi o dhyāni chohan, poteri psichici e spirituali, re divini sulla Terra o incarnazioni di dèi, eroi terrestri o uomini. La capacità di discernere, tra queste sette, quella a cui ci si riferisce è sempre stata propria degli iniziati, i cui primi predecessori avevano creato questo sistema simbolico ed allegorico” (DS 2, 765).

Mme. Blavatsky nella DS fa derivare (DS 1, 346) il termine THEOS dal verbo théein, correre, procedere, e con theoi indica coloro che lavorano per la formazione, i messaggeri della legge di un ciclo cosmico. Pare quindi che per teosofia  si debba intendere la conoscenza del processo di formazione dei mondi. Ad Eleusi gli iniziati ai misteri ricevevano la conoscenza dell’archè, degli inizi, e dalla conoscenza di questi momenti l’eroe Perseo, aiutato da Ermete e Atena, ottiene il segreto per uccidere Medusa, l’ignoranza. Le Graie avevano un solo occhio in due, un occhio a cui nulla sfuggiva, ma facevano la guardia a turno ed essendo quindi costrette a passarselo, avevano dei momenti di obnubilazione: a significare che, nell’alternarsi ciclico di periodi di attività e altri di “riposo”, indipendentemente dal tipo e dalla lunghezza del ciclo, dalla vita di un dio alla giornata di un uomo, tra una fase e l’altra vi sono dei momenti di laya, di riposo.

Ed ecco come H.P.B. riesce a conciliare fohat, uno degli attori più importanti, se non il più importante, della cosmogonia esoterica, con i personaggi dell’antico paganesimo: “Come Eros, la terza persona di una trinità primordiale composta da Caos, Gaea ed Eros, in corrispondenza alla cabalistica trinità composta da ain soph…, shekhinah e dall’‘antico dei giorni’ (lo Spirito Santo), nell’arcaica cosmogonia greca è molto differente da quello dei miti successivi, cosi fohat è una cosa nell’universo non ancora manifestato ed un’altra nel fenomenico mondo cosmico. In quest’ultimo, fohat è quel potere occulto, elettrico e vitale, che, per volontà del Logos creatore, unisce e raggruppa tutte le forme dando loro quel primo impulso che poi, col tempo, diventa legge, ma nell’universo non manifestato fohat è ben altro, così come Eros non è il brillante e alato Cupido,…… Troviamo un’eco di questo insegnamento primordiale nella più antica mitologia greca. Erebos [tenebre] e Nyx [notte] nascono dal caos e, per l’azione di Eros, generano Etere [cielo] ed Emera [giorno], la luce dei piani superiori e quella dei piani inferiori ossia della regione terrestre. Le tenebre generano la luce. Questo ricorda la volontà, o “desiderio”, di creare di Brahmā che troviamo nei purāna, e la dottrina del desiderio, πόθοζ (pothos), che è il principio creativo nella cosmogonia fenicia di Sanchoniathon. Fohat è intimamente connesso con la “VITA UNICA”. Dallo sconosciuto, da quell’UNO che rimane segreto, emana la TOTALITÁ infinita, il manifesto, ossia la periodica divinità manvantarica, ….” (DS 1, 109-10). Ed HPB aggiunge che “per gli occultisti, fohat è la chiave che svela e risolve i multiformi simboli ed allegorie della (cosiddetta) mitologia di tutti i popoli, rivelando l’eccezionale sapienza e la profonda conoscenza dei misteri della natura delle religioni egizia e caldea, come di quella ariana”. (DS 1, 673)

Da notare che, benché un dottore della chiesa come Agostino abbia detto che il tempo dei pagani era caratterizzato da un movimento ciclico con l’eterno ritorno dell’identico, e di quanto questo fosse avvilente, poiché, non essendoci una conclusione finale, non lasciava alcuna speranza agli uomini, la tradizione pagana al contrario, ha sempre aborrito il circolo chiuso, il flamen dialis, sommo sacerdote dell’antica Roma, non poteva portare un anello chiuso, simbolo di morte, ma portava un anello interrotto e non c’era alcun soldato che in guerra non portasse una collana a tortiglione interrotta (simbolo molto significativo per i teosofi, come evidenzia la lettera del M. n°18), il torques, dalla forma così simile al cordone ombelicale degli uomini ed all’elica del DNA. HPB ci dice (DS2,505) che “nel Siphrā di-Tzeniuthā” sta scritto che “la forza creatrice ‘crea facendo spirali a forma di serpente’ e ‘tiene la coda in bocca’ perché questo è il simbolo di un’infinita eternità e dei suoi periodi ciclici”. La tradizione pagana e la dottrina teosofica parlano di una “evoluzione” senza inizio né fine, un eterno viaggio verso sempre nuove esperienze in un alternarsi di momenti di progresso e di sosta, in sanscrito shristi e pralaya un vocabolo composto da laya (svanire) e pra (in avanti) che, etimologicamente, significa il “dissolversi”, ma con uno scopo, in previsione di un stato migliore. La dottrina teosofica insegna che i pralaya sono dei periodi in cui la materia che (o come) noi conosciamo scompare, ma durante i quali l’“essenza” di tutte le esperienze fatte per suo tramite viene conservata per risvegliarsi alla riapertura di un nuovo periodo di evoluzione. Secondo quasi tutti i sistemi cosmici degli antichi il tempo è ciclico, misurato da “soli” e da “ottave”, così è per gli indù (dottrine vedica, brahmanica, jaina e buddhista), i greci, gli scandinavi ed i cinesi…. Gli uomini sperimentano nella loro vita vari cicli, in primis quello del giorno e della notte (così ben rappresentato dai Dioscuri figli di Giove, la sapienza divina,  o dai vedici Aswin) e poi quello dell’alternarsi delle stagioni, quello lunare ecc., ed occorre notare che quando si ha una visione ciclica della vita, come quella affermata dal canone teosofico, si accettano implicitamente la rinascita e la reincarnazione… ed a proposito del cigno, la forma in cui si manifesta Giove per unirsi a Leda, questo uccello favoloso rappresenta la sapienza divina e gli indù lo chiamano hamsa, il simbolo della temporanea divinità maschile, Brahmā.

Molti, in conformità al fatto che si può interpretare una parabola con diverse chiavi, sono i significati dell’allegoria del racconto di Leda e il cigno narrato nelle Metamorfosi d’Ovidio, HPB ci dice (SD 1, 357) che “Seb, l’egizio dio del tempo, porta sul proprio capo un’oca e Giove, come pure Brahmā, assume la forma di un cigno, poiché alla base di tutto ciò sta il mistero dei misteri: l’UOVO DEL MONDO”. E Diodoro Siculo afferma che Osiride era nato da un uovo e che da un uovo di Leda, oltre ai Dioscuri, sono nati anche Apollo e Latona. Nella DS si legge poi che “…. è bene spiegare subito la doppia accezione…. dell’allegoria di Leda e dei suoi figli Castore e Pollùce, ognuna delle quali ha un significato particolare. Ad esempio, nel libro XI dell’Odissea.… i gemelli sono un simbolo astronomico e rappresentano giorno e notte e le loro spose, Febe e Ilaria, figlie di Apollo, il Sole, personificano l’alba e il crepuscolo, e poi c’è il mito del tutto teogonico con l’allegoria in cui Zeus viene rappresentato come padre dei due eroi, nati dall’uovo di Leda….. Questo mito appartiene a quel gruppo di allegorie cosmiche in cui il mondo nasce da un uovo. Leda assume, infatti, la forma di un cigno bianco quando si accoppia con il cigno divino…. in Pindaro si trova una variante dell’allegoria di Leda con un chiaro riferimento all’uomo mistico, ….qui Castore e Pollùce non sono più i Dioscuri, ma diventano un eloquente simbolo della duplicità dell’uomo, il mortale e l’immortale, e non solo questo, ma, come si vedrà, sono anche il simbolo della terza razza e della sua trasformazione dall’uomo animale all’uomo divino con solo un corpo animale”, ma non solo, Pindaro racconta che…. Pollùce trovò il fratello morente e nella sua disperazione, chiese a Zeus di fare morire anche lui, ma il signore degli dèi rispose: ‘Tu non puoi morire completamente, poiché appartieni ad una razza divina’, gli diede però una possibilità di scelta: o rimanere immortale vivendo eternamente sull’Olimpo, oppure, se vorrà, condividere completamente il fato del proprio fratello, passare metà dell’esistenza sotto terra e l’altra metà nelle dorate dimore celesti. Questa semi immortalità, condivisa con Castore, è stata accettata da Pollùce, e così i due gemelli vivono alternativamente, uno durante il giorno e l’altro durante la notte” (DS 2, 117-22). Il che rappresenta allegoricamente le due fasi della vita di noi mortali.

Dall’antichità molti degli insegnamenti che ci giungono celati negli antichi racconti sono significativamente conformi alla lezione teosofica: si dice che il carro di fuoco del Sole, sia Helios che Surya, venga trainato da sette cavalli per significare la sua settenaria natura e Dioniso, il dio divorato, fatto in quattordici brani da sette titani, che risorge ogni volta dalla propria morte, rappresenta l’Ego superiore che esotericamente, secondo HPB, è il Cristo, quell’individualità che, a differenza della personalità, continuamente si reincarna. Cristo si reincarna continuamente e da sempre, “… prima che Abramo fosse io sono…” (Gv, 8,58), in ognuno di noi. Come diceva Nietzsche nel 1888 (curiosa la data): “il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita che rinascerà e rifiorirà eternamente dalla distruzione”. Bacco il lidio o Dionisio il tracio, sono divinità che rappresentano, similmente a Pan, la fecondità della natura, la potenza che fa sì che questa si sviluppi portando benessere, consentendo vita e progresso agli uomini, sempre considerando che chi, come Tantalo, vede respinto dagli dèi il frutto della propria vita terreste (l’insieme di skandha, di elementali, che costituisce la personalità) è condannato a rinascere secondo la legge del karma. Personaggi come Issione, Tantalo, Sisifo, ecc., sono tutti delle personificazioni di una passone umana (H.P.B., THE ROOTS OF RITUALISM ).

“Frasi velate da un doppio senso abbondano negli antichi scritti classici… Laomedonte, per esempio, è stato il fondatore di un ramo degli antichi misteri in cui l’anima materiale legata alla terra (il quarto principio) era personificata dall’infedele moglie di Menelao, la bella Elena…” (DS2, 796).

Sono insegnamenti simili a quelli di molti sistemi religiosi indiani, ma senza il pessimismo di molti di questi ultimi con l’assunto di un samsara, il legame tra vita morte e rinascita, che è una sofferenza da cui occorre liberarsi. La concezione pagana d’occidente e quella teosofica sono invece fondamentalmente ottimistiche e considerano la ciclica successione delle rinascite come la via attraverso la quale si realizza un’evoluzione senza fine. E la legge ineluttabile della teosofia, la legge fondamentale dell’universo, quella che, nella continua ricerca di un equilibrio, lo rende ciclicamente un cosmos, prevede un succedersi di cause e di effetti essenzialmente pagana, Ananke è la necessità che nasce dagli uomini stessi, la necessità che domina ogni cosa, compresi gli dèi, espressa in forma perfetta dalle Moire, le FIGLIE DELLA NOTTE di Simonide, delle tenebre, che rappresentano quella legge d’eterno equilibrio che i Maestri hanno indicato come l’unica legge.

La tradizione parla di una partecipazione attiva dell’uomo alle attività del mondo, parla degli eroi, della ricerca di un equilibrio fra microcosmo e macrocosmo, ed HPB rimarca l’importanza dell’uomo nella realizzazione del piano cosmico: “La dottrina insegna che per divenire un dio perfetto, completamente cosciente, le primitive INTELLIGENZE spirituali devono passare per il livello umano. E quando diciamo umano non intendiamo solo la nostra umanità terrestre, ma i mortali che abitano ogni mondo, cioè quelle intelligenze che hanno raggiunto il giusto equilibrio tra materia e spirito, quello che noi abbiamo ora, avendo passato il punto mediano della quarta razza radice…” (D.S. 1, 106).

L’uomo è il ponte che unisce Logos e Cosmos per realizzare il progetto cosmico con la sostanza cosmica e per l’uomo, inconsapevole titano pervaso dalla luce dionisiaca, lo scopo dell’esistenza consiste nel riconoscersi come tale. Nel mito (l’annuncio di un’esperienza) lo stimolo che esercita thimòs, l’emozione, la lunarità, la luna è il simbolo femminile raffigurato sul capo di Asterion, il Minotauro che è fratello di Arianna (arihagne, la pura), è simboleggiato dal filo (quello gestito dalle Moire) che Arianna dà all’eroe Teseo, poiché senza la donna l’eroe non può uscire dal labirinto, vincere. È la necessità della personalità. L’attenzione alla traccia lasciata serve per uscire dal labirinto, facendosi sì coinvolgere dall’azione che si compie, ma comprendendo l’intero processo che si sta svolgendo in noi, Arianna è in noi e segna tutto il percorso fatto nella involuzione, sempre ricordando che l’Arianna che aspetta un figlio muore di parto ed alla fine viene abbandonata dall’eroe. Cosa questa che, dopo la morte dei fondatori della ST, l’insegnamento sul post mortem di una certa teosofia sembra avere dimenticato…. Omero racconta che, fino al ritorno di Ulisse, durante la notte Penelope (il nome significa tessitrice) disfaceva la tela tessuta durante il giorno (l’illusione, maya).

E, sempre riguardo alla personalità, è forse il caso di ricordare che nell’intento di essere spirituali c’è il pericolo di accelerare troppo i tempi, di non sfruttare appieno lo strumento perfetto che interminabili ere di involuzione hanno preparato. La personalità è preziosa, non è un fardello di cui ci si deve disfare in fretta, senza averne sfruttato appieno le potenzialità.

La teosofia non è una sapienza divina da ottenere, da conquistare, ma è la coscienza della sapienza insita nella manifestazione cosmica, è la religione intrinseca, quella della natura e dei suoi cicli, donata all’uomo dagli stessi dèi. Una sapienza di cui, al di là della contingenza e dell’imprevedibilità, gli antichi iniziati erano consapevoli, e nessuno può “personalmente” essere un “teosofo”, ma si è teosofi quando ci si rende conto, paganamente, di far parte di un’individualità più grande. B.P. Wadia, un teosofo, scriveva che “l’uomo con una vera fede… sente intuitivamente la presenza divina in tutto lo spazio, il movimento divino in tutta l’evoluzione, l’intelligenza divina che opera in tutto il mondo…”.

Non credo che l’insegnamento teosofico, sia un patrimonio proprio solo di coloro che hanno esposto una dottrina, ma di tutti quegli antichi vati che hanno cantato i loro inni, hanno enunciato i loro miti, indipendentemente dall’epoca in cui sono vissuti, di coloro che hanno raccontato dei fatti che la memoria dell’uomo non deve dimenticare, che hanno narrato di santi, di guerrieri e di uomini sfiancati dalla fatica, che hanno detto delle cose che l’umanità nel suo inconscio (Jung) riconosce paganamente vere a prescindere dalla veste con cui si presentano, e questo è accaduto anche nei tempi moderni, ad esempio quando Dostoevskij (1880) fa dire a Rakitin che “L’umanità troverà in sé stessa la capacità di vivere virtuosamente anche senza dover credere all’immortalità. La troverà nell’amore per la libertà, per l’uguaglianza e per la fraternità” (I fratelli Karamazov). Walt Whitman giunge a questa conclusione: “Giuro che ora credo che ogni cosa senza eccezioni abbia un’anima eterna! Giuro che credo non esista niente tranne l’immortalità!”.

Ogni uomo è la manifestazione della divinità, degli dèi dell’Olimpo, questa è la realtà del “come in alto così in basso” il grande assioma ermetico, questo è il vero significato dello knoti se auton che stava scritto sul frontone del tempio e che tradizionalmente proseguiva con “e potrai conoscere gli dèi e l’universo intero”. Il reale significato delle tre proposizioni fondamentali della DS ci dice questo: nella propria più intima natura l’uomo è l’Assoluto.

Nell’insegnamento tradizionale, che dai tempi della mitologia pagana giunge alla moderna dottrina teosofica, lungo il guruparamparā, la successione dei maestri, non c’è mai disaccordo, dice ora le cose che diceva migliaia di anni fa, appropriandosi paradossalmente della leriniana formula dei cattolici, “Quod ubique, quod ab obnibus, et quod semper creditum est, id firmissime credendum puta” (dobbiamo attenerci a ciò che è stato creduto sempre, dovunque e da tutti).

 

 

PIER GIORGIO PAROLA

 

 

 

Nulla ars imitari sollertiam naturae potest

 

Cicerone

 

………………… sempre ricordando che “LA NATURA DA SOLA NON BASTA”.

(DS2, 52)

 

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