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Rivista Teosofica Svizzera/Ticinese (ADYAR)

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Alessandro Martinisi, «Il sogno sognato di Karol Szymanowski»

25 martedì Set 2012

Posted by ancaroni in Articoli della Rivista Teosofica Ticinese

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Una pagina al giorno: Offrirsi in dono alla luce, di Alessandro Martinisi

di Francesco Lamendola – 27/09/2009

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]


Alessandro Martinisi è giovane.
Nato a Novara nel 1980, è giornalista pubblicista, laurea al Dams di Torino e Master in Scienze della Comunicazione presso l’Università della Svizzera Italiana di Lugano.
Da sempre appassionato di opera lirica e musica classica, negli ultimi tempo i suoi studi e le sue ricerche si sono concentrati sul legame esistente tra musica ed esoterismo.
Il suo libro «Il sogno sognato di Karol Szymanowski», uscito recentemente con una presentazione di Alberto Cesare Ambesi, è una monografia interamente dedicata alla genesi ed allo sviluppo del libretto e della partitura dell’opera «Re Ruggero», capolavoro del teatro musicale dei primi del Novecento, firmato dal massimo compositore polacco dopo Chopin: Karol Szymanowski; monografia che si sofferma particolarmente sul difficile problema dei complessi significati simbolici e allegorici di essa.
Nato a Timosovka, nei pressi di Kiev, Szymanowski trascorse una infanzia felice in Ucraina, minata però dalla malattia: una tubercolosi ossea che condizionò l’intera esistenza dell’artista. La sua elevata condizione sociale – era figlio di ricchi proprietari terrieri – gli rese possibili viaggiare a lungo fra Dresda, Berlino e Vienna, ove si trovava nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale. Ovunque si adoperava per far conoscere la musica polacca in Europa e per favorire un avvicinamento e una sintesi fra la cultura musicale dell’Occidente e quella della sua patria, prendendo a modelli di riferimento non solo Schonberg, Stravinskij e Chopin, ma anche le maggiori avanguardie, dall’impressionismo alla scuola wagneriana, nel particolare clima artistico e culturale del Decadentismo.
«Egli riuscì a elaborare un linguaggio autonomo, coloristico e fantastico, venato di accostamenti armonici audacissimi e di effetti timbrici di intensa suggestione: linguaggio che, nelle ultime opere, tende a realizzare una sintesi dello spirito polacco e dello spirito europeo» (dalla «Enciclopedia Garzanti della Musica», Milano, 2004, vol. II, p.873).
Karol Szymanowski si spense, dopo una lunga lotta contro la malattia, in una casa di cura di Losanna, nel 1937.
Fra le sue composizioni principali, oltre alle due opere «Agith», del 1922, e «Re Ruggero», del 1926, possiamo ricordare le quattro sinfonie (la terza  con voce solista e coro, la quarta concertante con pianoforte); le liriche per ove e pianoforte, fra le quali i «Canti d’amore di Hafiz», del 1911, e le «Canzoni del muezzin innamorato»; tre poemi per violino e pianoforte (fra i quali «La fontana d’Aretusa», del 1915); lavori corali a cappella e con orchestra, fra i quali la cantata «Demeter», con contralto e coro femminile, del 1917; uno «Stabat Mater» del 1926, per soli, coro e orchestra, che può essere forse considerato il suo capolavoro assoluto; e molte altre.
Il famoso «Re Ruggero» (titolo originale: «Król Roger)»,du cui si occupa il libro di Martinisi, è, insieme ai «Mythes», allo Stabat Mater e ad altre composizioni, il punto di avvio di una cospicua scuola nazionale polacca e costituisce un’opera destinata a durare, nella storia della musica, anche per i suoi pregi letterari e per la fitta rete di allegorie esoteriche cui s’è accennato.
Ha scritto Mario Bortolotto (nell’enciclopedia «Le Muse», Novara, De Agostini, 1968, vol. XI, p. 380):

«Le origini musicali di Szymanowski sono in sé alquanto composite. Agli inizi, ciò che lo interessa pare essere esclusivamente il pianismo di Chjopin, di cui è particolarmente sensibile alla “Stiimmung nazionale”. È peraltro già nelle prime opere una lettura alquanto ‘orientata’, attenta a cogliere di quella musica le vibrazioni più sottili; il segreto “spleen”, secondo una sensibilità estremamente vigile di decadente.Era fatale che questa attenzione ala vertigine tardo-romantica si allargasse gradatamente ai maestri di fine secolo. Skrjabin lo incanterà con la perfezione della sua scrittura pianistica e orchestrale, e del pari con la vocazione ad esprimere in musica esperienze occulte. L’Impressionismo francese sarà letto ed assimilato secondo una prospettiva analoga: in Debussy egli coglie solo il calibrato divisionismo cromatico. Quando Stravinskij si affaccia alla scena della musica europea, Szymanowski è pronto a coglierne la pregnanza coloristica, ma non a seguirlo sulla via della ‘musica al quadrato’. Le esigenze di fondo del musicista polacco restano quelle espressive. La passione per il folclore non sarà mai veicolo di quelle esigenze umanistiche che ne sono, in un Bartók o in uno Janácech, la dichiarata ragione. Anche il canto popolare, nella sua vaghezza modale, sarà un altro modo di esotismo in patria, per così dire: una maniera di svagato fantasticare che deve sonare esotica agli stessi Polacchi. Il melos contadino non si distingue insomma essenzialmente dalle ricerche compiute in altri domini sonori: le bellissime canzoni “Slopiewnie” dai “Canti d’amore di Hafiz” o dai “Canti del muezzin pazzo”, di un umbratile orientalismo. Il suono, filtrato e per così dire sezionato fino a goderne le decantazioni impercettibili, provenga dal pianoforte di Chopin o dall’orchestra del primo Schoenberg, sarà la ricerca costante di una musica che non par conoscere sviluppi o accrescimenti: dalle prime composizioni alle estreme si assisterà soltanto a una continua spinta verso il vacillare  della tonalità (già compromessa dall’uso sistematico del tritono, aggravato dalle sospensioni e dalla metrica irregolarissima), verso incantamenti preziosi, appena un poco stucchevoli e compiaciuti.»

In conclusione, la vita e l’opera di Szymanowski si svolsero all’insegna di una musica raffinata e barocca, in linea con il clima culturale dell’epoca, ma anche venata di elementi molto originali; di uno stile prezioso e personalissimo, volto alla creazione di insoliti ed elusivi effetti timbrico-armonici; di una ricerca rigorosa e incessante, al fine di spingere il teatro musicale verso la dimensione del trascendente e dell’assoluto: donde quel particolare interesse verso l’esoterismo che non era nuovo, nell’ambito della cultura polacca del XIX secolo (cfr., ad esempio, il nostro precedente articolo: «Matematica, occultismo e messianismo nel pensiero di József Hoene Wroński», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Dal libro di Alessandro Martinisi «Il sogno sognato di Karol Szymanowski», (Novara, Quintessenza, Editrice Teosofica Vedantina, 2009, pp. 105-125):

«L’ultimo atto merita di essere esaminato con maggior attenzione degli altri, perché in esso ogni elemento, ogni gesto racchiude un tentativo di riscatto dalla propria condizione evocato a ogni passo, a ogni parola. Come ho avuto modo di scrivere questo è l’atto ampiamente modificato da Szymanowski approntando un taglio radicale a quanto aveva scritto il cugino Iwaskiewicz e, come quest’ultimo ricorderà, è il momento esatto della frattura ideologica fra i due artisti.
L’atto è ambientato tra le rovine di un antico teatro greco.  C’è un motivo per cui l’anfiteatro è in rovina, Szymanowski ha abbandonato la tragedia greca ormai superata, come è stata superata la ricerca del mito che il compositore ha inseguito in Sicilia.  Il compositore polacco vuole riuscire là dove la tragedia greca ha fallito. Come per il personaggio d Ruggero che subisce un’evoluzione rispetto a Penteo, ero della tragedia greca, anche l’idea di “tragico” subisce un’evoluzione. Tutti gli elementi suggeriscono decadimento e trascuratezza. Il palcoscenico è crollato, metope sono sparse dappertutto, frammenti d colonne giacciono tutto intorno. Erbacce e fori selvatici crescono a profusione. La natura primordiale della scena è ulteriormente enfatizzata dalla vicinanza del mare; qui ha avuto origine la vita, e per d più esso è simbolo delle non ancora sviluppate  e indifferenziate forze della psiche.
Una pallida luce lunare proietta vaste ombre  su questo territorio simile a un grembo immenso  in un’atmosfera amniotica. Pietre senza vita, e, sullo sfondo, l marte che lambisce la spiaggia e “misteriose argentee stelle” scintillanti nel cielo.  Il Re indossa una bianca tunica di lino logora e coperta di polvere.  Edrisi cerca di calmarlo, lo spinge a risvegliare le rovine.  Ruggero chiama Rossana. Colpi di tamburo come eco di fantasmi.
Ruggero chiama di nuovo e s sente Rossana rispondere alle grida. Edrisi è meravigliato da questo “risveglio di stregoneria”. La voce sembra venire dal mare. Ruggero chiama di nuovo ma è il Pastore questa volta a rispondere. Seguono voci  di donna in lontananza che cantano motivi della danza estatica del secondo atto. Voci salutano il Re che, gettata la spada, s sottopone a giudizio.
Rossana appare e invita il Re a giacere con lei, ma Ruggero insiste nel confrontarsi col Pastore
RUGGERO (la fissa, febbrile): Sei tu, Rossana! La bella bocca sboccia nel tuo sorriso dolce; l’aurate chiome inondano di splendore  il vivo tuo bel volto; dagli occhi tuoi più profondo è l mistero che nei stellari fuochi. Rossana! Sei tu? O pur fantasma vano da folle languore creato?
ROSSANA: TI sto vicina, o mio Signore. Nel mattutino albore a te vengo. Dammi la man, Ruggero! Voglio condurti nel mio castello, nel talamo mio dormirai! Dammi la man, Ruggero!
RUGGERO: Ma lui? Lui dov’è? Il Pastore?
Successivamente la donna suggerisce d fare un sacrificio di fuoco e quando le fiamme si levano al celo, compare il Pastore fra le macerie del palcoscenico sotto forma di Dioniso stesso. Come indicano le direttive di palcoscenico: “egli appartiene all’eterno. Una luminosità si irradia da lui come se fosse la fonte dell’energia; dietro e intorno a lui tutto sprofonda nell’Oscurità più completa”. Il Pastore sottopone Ruggero a processo. Per tutta la durata della scena numerose figure iniziano ad apparire sui gradini del teatro,appena visibili, “il movimento della folla deve essere avvertito, piuttosto che visto”. Quando la canzone del Pastore cresce di intensità la gente si unisce a lui. Il giorno nasce e le stelle  iniziano a sbiadire lentamente mentre Dioniso raggiunge il culmine della sua epifania.
Nel momento del massimo  trionfo Rossana getta via il suo mantello e si rivela trasfigurata  in una Menade. Mentre il chiarore che si irradia dal astore diventa sempre più pallido, Rossana afferra il tirso e corre verso il fondo del palcoscenico, scomparendo tra la folla. Ruggero sembra sprofondato in uno stato  di trance ed è impenetrabile all’apparente perdita  della consorte. Le grida di trionfo si dileguano.  Mentre le fiamme vibrano sull’altare la luce soprannaturale  della rivelazione di Dioniso si fonde nella luce del sole nascente.
Ruggero si guarda intorno colmo di gioia  e “come trascinato da una forza misteriosa”, si inerpica in alto sui gradoni e spalancando  le braccia canta il suo inno al sole nascente.
IL PROBLEMA DEL FINALE.
Sul finale di “Re Ruggero” ancora poco si è detto e si è scritto, e sulla ambiguità di finale-aperto il terreno si fa scivoloso. Un fatto però è certo, si può partire da quello per cercare di arrivare a una ipotesi, cioè che lo spettatore rimane immerso in una atmosfera di indeterminatezza, soprattutto una volta abbassato il sipario o spento l’impianto stereofonico.
Palmer scrive giustamente che si possono fare solo ipotesi, ma quali?
Jim Sanson si è espresso sulla mancanza di carattere  conclusivo dell’accordo di Do maggiore  con cui termina prematuramente l’inno al sole di Ruggero.[…]
Innanzitutto occorre fare un passo indietro ricordando  (come ho già avuto modo di scrivere nei capitoli precedenti) come il terzo atto sia stato quello riscritto più volte da Szymanowski.
Nella prima versione, Isakiewicz indicava nello “szkic” che l’opera si sarebbe dovuta concludere con Ruggero che si gettava nell’esperienza dionisiaca del baccanale scatenatosi all’interno del teatro greco; questi sarebbero stati i versi conclusivi in cui il Coro avrebbe dovuto ripetere a intervalli regolari: “Ho ho Jaschos ho ho”: “Scopri la tua anima nell’ombra!  Gettati ai suoi piedi! La dolcezza ti avviluppa le labbra ebbre di sole! Abbraccia l’anima sua! Essenza dei segreti più nascosti! Rendi la tua vita, e lui la rende a te!”.
Versi che sono stati tagliati nella stesura definitiva operata dal compositore. […]
Sono però le parole di Iwaskiewicz a illuminare sui cambiamenti della scena:
“Ruggero non solo trovò Dioniso nelle rovine del vecchio teatro, ma lo seguì e per di più si lanciò nel caos del misterioso  culto dionisiaco. Ruggero non solo aveva riconosciuto Dioniso nel Pastore, ma l’aveva seguito nell’oscurità, abbandonando ogni cosa per lui. Szymanowski cambiò  questa conclusione. Forse non comprese il definitivo ripudio del mondo che io avevo introdotto; forse egli considerò la mia semplice conclusione una spiegazione superficiale. Qualunque sia la ragione, egli gettò da parte il mio terzo atto e vi sostituì quello quasi completamente differente che appare oggi nell’opera, e che ha persino uno stile diverso da quello composto da me.”
Iwaskiewicz aveva ragione, suo cugino considerava quel finale troppo scontato, troppo superficiale per poterlo accettare supinamente.  Mise mano al testo in modo radicale e gli conferì una profondità di lettura, di concetti, di simboli, rendendo questo monologo il cuore pulsante dell’opera, la chiave d volta dell’intera struttura drammaturgia e musicale. […]
L’irresolutezza del finale apre la strada a una possibile nuova interpretazione, a nuove ipotesi come si diceva all’inizio del paragrafo, in cui sarebbe poco probabile vedere in Ruggero  il depositario di un mistero che non avrebbe mai potuto  rivelare apertamente. A ci e perché non avrebbe dovuto rivelarlo?  Perché nasconderlo? Se rivelato, quali sarebbero state le conseguenze? Un tale scavo psicologico era ben lontano dalle intenzioni di Szymanowski,m il quale, come già scritto, sai è limitato a suggerire un modello archetipico di personalità, schematico nel suo equilibrio drammaturgico.
Forse basterebbe rimanere aderenti a ciò che il libretto descrive: “acceso il fuoco, i seguaci del Pastore  iniziano una nuova danza mentre il Pastore si trasforma  in Dioniso. Non appena la danza si conclude  e i partecipanti escono di scena,  Ruggero canta un inno di gioia al sole che sorge.”
Canta un inno al Sole, non ad Apollo. Ruggero non segue il Pastore-Dioniso come nella prima versione di Iwaskiewicz, ma in quella definitiva di Szymanowski è chiaro come lo rifiuti apertamente, come si sradichi da esso per seguire la propria strada grazie all’aiuto della danza, arte dionisiaca per eccellenza, il vero mezzo che “demistificando la realtà e mostrando la realtà originaria, ora ricoperta e nascosta dalle convenzioni, dal potere, alle leggi della tradizione”, permette di redimere ed elevare l’uomo per spalancare le sue braccia al Sole, alla Luce.
L’azione che compie Ruggero allo spuntare dell’alba è improvvisa  come un lampo, “come spinto da una potenza misteriosa” è scritto nel libretto. Proprio questa indicazione ci dà modo di comprendere lo spessore di significato atto a quest’ultima scena. L’azione compiuta  infatti non è casuale, in quanto l’illuminazione istantanea ha una precisa simbologia.
Il paragone corre al Buddha per alcune interessanti  coincidenze con Ruggero. L’illuminazione del Buddha avviene in un istante atemporale, quando, all’alba, dopo una notte trascorsa in meditazione,  alzò gli occhi al cielo e scorse improvvisamente la luce del mattino. Migliaia di pagine sono state scritte sul mistero di questa illuminazione avvenuto all’alba.
Quella luce nel cielo è chiamata nella filosofia mahayanica “Chiara Luce”. Lo stato di Buddha  è la situazione di colui che si  liberato a ogni condizionamento ed è simboleggiato proprio dalla luce percepita  al momento dell’illuminazione. In altri termini la presa di coscienza un atto istantaneo, paragonabile a un lampo. […]
Ma c’è dell’altro perché nella filosofia induista la rivelazione della Luce, lo spuntare del Sole, è anche rivelazione dell’unione atman-brahman.
Sembra corra un filo sottile, quasi una corrente sotterranea  che attraversa parte della produzione del polacco  sul concetto di atman cui ho già accennato alla fine del primo capitolo.
La Luce non appare come un semplice atto d conoscenza metafisica, ma un’esperienza più profonda, nella quale l’uomo si trova esistenzialmente impegnato.
La gnosi supremo apporta una modificazione del modo di essere. […]
In quel preciso istante Ruggero muore a se stesso  e al mondo per rinascere a una nuova vita, “dalla morte all’immortalità – scrivono le Upanishad – verso la luce ultraterrena, spinto dall’insaziabile e profondo desiderio di eternità”, ricordava Korab in “Efebos”.
Non abbiamo la certezza che Szymanowski fosse a conoscenza della filosofia induista  ma, per un intellettuale come lui, conoscitore di storia delle religioni, non si può escludere a priori.
Anzi, a suggerire una direzione in questo senso può essere proprio  il concetto di atman. Su questo terreno parrebbe esserci un superamento della semplice antitesi apollineo-dionisiaco e sembrerebbe quindi superata la lotta nietzschiana tra i due principi (“Ora so che il nostro più grande errore era questo: che ognuno d noi vedeva in ‘Re Ruggero’ cose differenti”, ricordò puntualmente Iwaskiewicz).
Allora Ruggero non appare più un depositario di misteri da custodire, ma, attraverso la metafora del sacrificio di se stesso con l’atto di strapparsi il cuore per donarlo al Sole,diventa l’Esempio assoluto e perfetto, diventa martire, modello a cui l’umanità può tendere come alta ispirazione. In esso non si fa fatica a intravedere la figura di un novello Messia oppure di un novello san Francesco. C’è infatti una strada da percorrere in questa direzione. […]
Il gesto di Ruggero, delle braccia aperte tese indica dunque come egli desideri abbracciare l‘umanità  intera in un supremo atto d’amore e in esso Szymanowski vede l’unica via di salvezza per il mondo. Szymanowski-Ruggero tenta un estremo appello di redenzione, attraverso un percorso si sofferenza, quasi a suggerire che solo salvando l’umanità tramite  la catarsi dell’opera d’arte  egli potrà salvare anche se stesso. Parafrasando una poesia di Jan Kasprovicz “Milosc” (“Amore” del 1895), il percorso di Szymanowski-Ruggero potrebbe prendere le mosse da un amore disperato  per approdare all’amor vincens, dall’amore-peccato all’amore-salvezza.
Ruggero, come l’uomo moderno di Jung, deve essere necessariamente da solo  a compiere questo percorso, solo nel suo “splendido isolamento”, escludendo anche il fedele consigliere Edrisi:
“Ogni passo verso una più piena consapevolezza  del presente lo distoglie ulteriormente  dalla partecipazione mistica alla massa degli uomini, dall’immersione in una consapevolezza comune.  Ogni passo in avanti significa un atto di liberazione  da quella inconsapevolezza primitiva onnicomprensiva che reclama la maggior parte dell’umanità quasi completamente” (A. Wightman).
Non un atto estremo, ma un atto coerente  nell’appropriazione e nella conquista  della propria libertà intellettuale e della propria consapevolezza.
L’opera nasce e si forma al tramonto della Prima guerra mondiale e viene quindi concepita sllo sfondo della guerra civile post-rivoluzionaria. La ricerca da parte di Szymanowski di scintille fra le ceneri negli anni successivi a questo eventi era sintomatico di un ottimismo essenziale, tipico de compositore polacco, nella capacità dell’uomo di comprendere e cogliere i fondamentali problemi dell’esistenza.  Terribilmente ironico il atto che questa ricerca intrisa di umanità abbia provocato dimostrazioni nazionaliste tedesche a Duisburg nel 1928 sollecitando poi i critici tedeschi a chiedersi “cosa ha a che fare con noi tutto questo nel nostri momento attuale”.
La non conclusione dell’opera con quel luminoso accordo in Do maggiore, quelle battute che sembrano prematuramente interrotte, rappresenterebbero anche un autentico scuotimento critico per l’ascoltatore e potrebbe essere l’unica vera occasione di meditazione, esattamente alla fine di questa “opera rito”, sui vari significato dell’esistenza. Allora nel Finale non è più Ruggero l’unico protagonista, ma insieme a lui è l’ascoltatore, quasi gli fosse richiesto di rivestire il ruolo di catecumeno.»

Il re Ruggero come lo Zarathustra di Nietzsche, che saluta il sorgere del sole con dionisiaco abbandono e, al tempo stesso, come seguace delle dottrine orientali della illuminazione subitanea, mediante una rottura consapevole con lo stato di coscienza ordinario?
Se l’ipotesi di Martinisi è giusta, allora non si tratta di una alternativa, ma entrambe le domande confluiscono in una sola risposta: re Ruggero è lo Zarathustra che ha superato la logica della dualità, dell’opposizione fra spirito dionisiaco e spirito apollineo, e che è pervenuto alla consapevolezza della assoluta non dualità dell’Essere.
Sarebbe questa, dunque, la sua ultima e più preziosa conquista spirituale; e non si può fare a meno di andare con la mente ad un altro Pastore, il quale, mordendo il serpente che, penetratogli in gola, lo stava soffocando, scopre, in un riso ineffabile, lo splendore della visione assoluta, dove tutto è, finalmente pacificato, così come deve essere, compreso il passato, quel passato che è fonte di tanto dolore a quanti non hanno saputo oltrepassarlo e farlo proprio (cfr. F. Lamendola, «La redenzione del passato, culmine

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